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PD e logiche valutative

Fra le molte cose che si sono scritte dopo le elezioni politiche del 4 marzo scorso mi vorrei inserire per una considerazione ulteriore. Mi pare pressochè assente nei commenti che leggo (e devo dire che certo non ne ho letta che una parte, vista la quantità pubblicata sui diversi e più o meno autorevoli canali) una valutazione seria dei risultati politici ottenuti dal quinquennio di governo a guida PD che si è concluso da un mesetto. Voglio dire che il giudizio su ciò che si è fatto non è dato dal voto, che invece orienta rispetto al futuro parlamentare e governativo del paese dando al PD un ruolo minoritario.

Il voto parla di cosa il popolo vuole a partire da ciò che oggi siamo, non costituisce quindi affatto, a mio parere, una bocciatura di ciò che si è fatto ma anzi, paradossalmente, si basa su questo.

E' un po' come per un matrimonio. Se dopo un tot di anni una coppia si separa questo non è un fallimento ma significa che da quel momento in poi essa, più o meno concordemente, ritiene di poter fare meglio nel futuro in un altro assetto relazionale.

Troppo spesso prevale invece un'idea depressiva e auto-eco colpevolizzante che, per i matrimoni e ancor più irrealisticamente per i governi, sembra basarsi su un'impossibile continuità a tempo indeterminato. Come se ci domandassimo 'Perchè è finita?' 'Abbiamo sbagliato tutto se ci hanno bocciato?' Mentre vorrei proporre l'idea che nel tempo che è durato un governo ha fatto cose che potrebbero essere state ottime, o meno, ma che è da oggi in poi e magari anche grazie a ciò che è stato fatto, che si ritiene di voler scegliere soluzioni diverse fra quelle presenti nel menù elettorale.

Questa prospettiva implica tuttavia di introdurre un approccio alla valutazione dell'operato politico che lo guardi come un'azione complessa in un contesto complesso e che ne metta in luce sia i vincoli e le possibilità che il contesto ha offerto, sia i vincoli e le possibilità interne al sistema governante stesso.

Naturalmente questa analisi richiede quindi, se partiamo dall'esterno, di considerare, ad esempio, l'andamento economico mondiale ed il suo trend (sul quale abbiamo una modesta incidenza come paese), il decorso delle vicende politiche europee (che sono un contesto prossimale importante per l'Italia e sul quale è da valutare il peso del nostro ruolo), eventi accidentali di segno positivo o negativo che possono aver inciso sull'impiego di risorse (per esempio catastrofi naturali sull'insorgenza delle quali il governo ed il parlamento passato potrebbero aver avuto assai poca possibilità d'incidenza).

All'interno di queste ed altre variabili va poi valutato, dicevamo, l'operato del governo inteso come sistema complesso.

La semplificazione che addita, come eroe o come colpevole, il capo del governo e/o il capo del partito di maggioranza relativa, come autori di tutto ciò che si è prodotto sul piano politico nella passata legislatura è evidentemente una caricatura della realtà. Una caricatura che però è funzionale oggi all'individuazione di un capro espiatorio che si prenda le colpe del (presunto e ingiustificato, come dicevamo) fallimento, come in passato si è preso i meriti del rilancio, del cambiamento, etc.

L'azione politica quindi richiede di essere valutata all'interno dei vincoli esterni, già sommariamente citati, ed interni sempre presenti in un organismo non monocratico ma, appunto, democratico e in uno stato dotato di sistemi decisionali ed influenze molteplici che incidono sui processi attuativi di provvedimenti e prima ancora, naturalmente, sulle decisioni stesse.

Fuori dalle semplificazioni è bene ricordare che la compagine governativa è stata costituita da diversi partiti e che su molte questioni chiave, come è ovvio che sia, il dibattito e le conflittualità politiche sono state molto alte.

Fatte queste premesse, non secondarie, la valutazione dell'operato di un leader e di un'azione politica di un governo richiede la messa in luce delle idee guida che hanno ispirato questa azione e di come esse l'anno inverata e solo dopo dunque la valutazione del risultato ottenuto.

Voglio dire che se la prospettiva teorica, la visione delle relazioni umane e delle organizzazioni, è, per esempio, all'insegna dell'inclusione, le politiche relative alla migrazione, ma anche ad altri numerosi aspetti che riguardano la relazione con la diversità, saranno all'insegna di questa prospettiva. Se invece saranno all'insegna di un equilibrio fra 'società aperta' e 'società chiusa', per dirla popperianamente, le politiche prodotte saranno non poco diverse.

Questo ci consente di ragionare sui presupposti ideali e poi di arricchire la discussione con i dati di esito.

Lo stesso vale per ogni altro ambito politico, per esempio la politica formativa e dunque scolastica, quella sanitaria, quella fiscale, etc provando dunque ad uscire da una logica eroe/colpevole e a muoversi su un piano maggiormente serio ed utile per il futuro, che è ciò che conta per la sinistra e per il paese.

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L'algoritmo iatrogeno



Uno spettro s'aggira per le scuole d’Italia: lo spettro dei bambini e giovani come grande malattia. Tutte le potenze cliniche, dell’accademia, della psicologia cognitivista empirica, della meritocrazia darwiniana, delle competenze come competizione, si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro: càmici, toghe e divise, magistrati e legislatori, radicali comportamentisti e poliziotti dell’omologazione sociale. Considerano ogni “problema” una malattia, e lo clinicizzano, come risposta allo spettro che s’aggira. Scompare la risposta pedagogica.

L’incipit para-marxiano descrive un processo di lunga iatrogenesi (malattie prodotte dai medici) che sta classificando in chiave “clinica” sempre più numerosi alunni, con ripercussioni sulla scuola fino alla sua stessa ragion d’essere, su gran parte della pedagogia progressista, sul destino dell’educazione come sviluppo individuale e collettivo della coscienza e della libertà.

La profezia di Ivan Illich su “Nemesi medica” si sta avverando: un dominio dell’algoritmo clinico che riduce le persone a “sintomo”, perdendone la complessiva identità. Per ogni sintomo c’è una medicina, una terapia, un santone. Siamo inoltre dominati dall’ideologia della salute omologata ad un’astratta vita senza mai dolori e fatiche. Sullo sfondo l’enorme potere, quasi senza limiti, della medicina attuale della “salute asintomatica”, effetto della consumistica ideologia del godimento senza limiti, della salute come “non malattia”.

In sostanza, è esplosa la manìa per cui tutti i “problemi” di ogni bambino o giovane (biologici, cognitivi, relazionali) vanno serializzati da uno sguardo scientista empirista che individua (cerca, trova, inventa) “sintomi” scissi dall’unitarietà e complessità di ogni singola persona. Questa teoria ha un metodo dominante, l’ EBM (evidence-based medicine) strutturato sulla statistica delle frequenze di singoli sintomi lungo scale (oggettive?) a gaussiana predittiva (test, soglie, prove, esami..diagnosi). Metodo che produce burocraticamente “disturbi, sindromi, spettri, ecc..” con linee guida cliniche in apparenza “dure” ma che variano spesso. La centralità mitica del “sintomo” giustifica norme, leggi, tecniche, terapie, farmaci, e una violenta pressione sull’agire pedagogico a diventare tecnicismo separativo. Con nuovi affari e nuovi specialisti. Suggerisco a tutti l’attenta lettura del libro di Marco Bobbio, famoso cardiologo figlio di Norberto, “Il malato immaginato, i rischi di una medicina senza limiti” Einaudi 2010. Una critica radicale alla teoria dell’EBM e la proposta di una medicina più umana, che accetti la vita come processo cui la medicina, come la pedagogia, debba guardare sempre con una visione olistica, ecologica, sistemica.


Qualche esempio per capirci, con casi inerenti la scuola.

1. Leggo dal Centro Studi Erikson la presentazione di un convegno con queste parole: “…Le ricerche stimano che sempre più bambini e ragazzi nella fascia di età compresa tra i 6 e i 18 anni manifestano disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi di attenzione, impulsività iperattività”. Faccio notare agli amici Erickson, in genere studiosi seri, un lapsus evidente: “…sempre più bambini….manifestano…disturbi, ecc..”. La questione è, ovviamente più complessa. Si tratta di un’epidemia? Ma non c’é alcuna prova! O invece di una diversa attenzione (clinica? culturale? ideologica?). Non potrebbe essere che si accelerino troppo le tappe evolutive per l’idolatria del precocismo? Insomma non potrebbe essere che queste “malattie” siano come l’obesità? Non basterebbe fare la dieta? Quindi qual è la causa e quale l’effetto? Si esaltano “sintomi” scissi dal resto con teorie incerte sull’eziologia,. il sintomo diventa causa strutturale della crisi della persona (non una tra altre), non fa emergere potenzialità alternative (come ci insegna Andrea Canevaro) ed esalta ovviamente come soluzione la tecnica, lo specialismo, l’isolazione dal resto e dagli altri.

2. Una signora bolognese, che non conosco, è oggi responsabile scuola del PD, nonché senatrice capogruppo PD nella Commissione scuola del Senato. In un suo testo “politico” sulla scuola media propone l’assunzione (in più dei docenti disciplinari) di “insegnanti specialisti in psicopedagogia della preadolescenza” perché l’età della scuola media è complicata. Dunque: non una formazione iniziale di tutti i docenti sulla preadolescenza, ma insegnanti “normali” di italiano, matematica, ecc…, e poi esperti di paturnie adolescenziali, un mix tra commissario politico, cappellano e terapeuta solitario. Considerando, ovviamente, di per sé la preadolescenza “una malattia". Suggerisco alla senatrice bolognese la lettura (anche questa attenta) del libro dei francesi M. Benasayag e G. Schmit “L'epoca delle passioni tristi” Feltrinelli. I due francesi, riprendendo anche approcci di tipo marxista (oh, yes!) sul rapporto tra persona e società, pongono al centro la “tristezza delle società adulte” davanti alla paura del futuro e la crisi adulta come origine-causa prima di una qualsiasi preadolescenza faticosa. Il rischio di una qualsiasi terapia sui giovani è evidente: lo psicologo e l’educatore come “bromuri-sedativi” di una crisi che andrebbe invece esplosa in ben altre azioni economiche, sociali, politiche. Riemergono gli studi di Faucault sulla “salute” come omologazione ideologica. Curare gli effetti senza intervenire sulle cause è sbagliato scientificamente, alla lunga dannoso. Dunque, è l’intera comunità adulta di una scuola media (i professori, i genitori, le bidelle) che dovrebbero farsi “saggi di preadolescenza”. Saggi e non “sapienti”, cioè capaci di comprendere e di cercare con gli alunni una fuoriuscita di libertà, che può/deve contenere anche elementi di divergenza, non sedativi che attribuiscono al ragazzotto/otta le cause di tutto il male. Magari accompagnato da “teorie genetiche” o “neuro-specchiali”, che fanno da cornice scientista semplificatoria delle contraddizioni umane e sociali.

3. Dal 2001 l’OMS propone come strumento di individuazione della condizione umana (non di handicap o di disagio, ma di condizione “tout court”) il cosiddetto ICF , interessante strumento diagnostico con caratteristiche dette “bio-psico-sociali”. Insomma, uno strumento che interpreta la persona nel suo insieme a partire dal suo “funzionare”. Uno strumento che va oltre la semiotica classica, le diagnosi sintomatologiche, e ha per natura scientifica quella di essere “interdisciplinare” (clinica, pedagogia, sociale, psicologia, ecc..). L’ ICF ha i suoi limiti, ma è una piccola svolta culturale che l’Italia non ha acquisito. Le ragioni del no al suo uso nel mondo clinico e istituzionale sono evidenti: si preferisce il vecchio ICD-10, strumento diagnostico centrato sui sintomi e la loro esaltazione clinica. Tutto il mondo della disabilità è calcolato in sigle alfanumeriche dall’ICD-10, ed è alla base della burocrazia clinica, sociale e pedagogica (invalidità, pensioni, prebende, sostegno fino al calcolo delle ore, protesi, ecc…). Quindi un apparato concettuale che confonde la persona con la sindrome, di fortissimo potere istituzionale, che produce nella scolarizzazione più ingiustizie che equità. E infatti la ormai vecchia ma saggia Legge 104/92 pretendeva la cosiddetta “diagnosi funzionale”, più articolata di una sigla e capace di vedere deficit e potenziali, una specie di anticipo dell’ICF. Ma il MIUR, il Ministero Salute, e quello del Welfare fanno più i conti con la quantità che con la qualità. Rinchiudere la persona in “sintomi” dà forza allo “specialista del settore”, che assume infiniti poteri terapeutici e di indirizzo anche della scolarizzazione.


Non è un caso che l’epoca della “grande malattia” nei bambini e nei giovani sia aumentata via via che si sono concretizzate le politiche darwiniane della destra (ma non solo) con il mito del “merito”, la confusione sulle “competenze”, la mania della “competizione”, la valutazione INVALSI vissuta come perfomance, ma anche il ritorno dei voti nel primo ciclo, l’aumento degli alunni per classe, la riduzione della flessibilità, l’omicidio dell’autonomia scolastica sulla culla. Tutto questo ha alimentato un processo culturale di decadenza che bene ha descritto Dario Missaglia nel suo recente articolo “L’eredità contraddittoria del governo Monti sulla scuola” del 14 maggio scorso, quando evidenzia gli aspetti fondamentali dell’attuale crisi della scuola, che è ormai di identità e ruolo sociale, in due parole se domani se sarà un futuro trasformativo o un presente darwiniano.

Paradossalmente, oggi la rincorsa alla “certificazione” e di “giustificazioni cliniche” davanti a qualche presunto mal funzionamento di apprendimenti/comportamenti, sembra spesso una specie di “difesa” dei genitori davanti ad una scuola diventata dura e competitiva. Ma diventa anche una scusante per gli insegnanti (“Ah, allora non è per volontà che non capisce, ma per biologia! Quindi: io non ho colpe didattiche”).

La Grande Malattia semplifica molte cose, tutte brutte. Per esempio riduce la responsabilità degli adulti, abbassa la fiducia verso i ragazzi (se non ce la fanno non è colpa loro), deresponsabilizza la relazione adulto-bambino. Prefigura anche nuovi cronicari scolastici di finta integrazione, con una nuova subdola fenomenologia che ho chiamato “isolazione”, cioè stare a scuola con gli altri per finta, perché il “sintomo” diventa barriera, specialismo, calo della fiducia evolutiva. Accade quindi che ad alcuni, davanti al mito selettivo, possa sembrare che le tecniche separative (es. il compensativo e dispensativo dei DSA) sia comunque meglio. La recente (confusa e pericolosa) nota MIUR sui cosiddetti BES, con l’estensione di dispensativo e compensativo ai nuovi dolori, legittima una separazione pedagogico-burocratica tra alunni, in cui l’insegnante ha poco spazio di flessibilità e di esaltazione dei potenziali. Si riduce anche il valore della resilienza, cioè la sana e normale risposta alle sfortune della vita di cui spesso i ragazzi abbondano, e che i sacerdoti della grande malattia negano con questo pensiero: ”Mica questi ragazzotti vorranno curarsi da sé reagendo alle sfighe con la propria forza? E io dove finisco con le mie tecniche perfette?”. Qui la iatrogenesi algoritmica sfiora l’assurdo, ma è oggi potere seduttivo: promette “una diagnosi per tutti. olè; la guarigione per tutti, olè; e l‘eterno benessere, olè. Se seguite me”. Davanti alle incertezza della scuola e alle passioni tristi del mondo, un certificato per giustificarsi crea la fine della divergenza, l’assistenzialismo come necessità. Un nuovo stuolo di specialisti pronti a curarci.


La grande malattia dentro la scuola ha origine da fenomeni complessi che qui accenno come cornice entro cui collocare la fuga verso la “grande malattia certificata” come piccola salvezza individuale dalla selezione darwiniana, la separazione scientista tra “sani” e “disturbati”, l’invadenza della tecnica salvifica rispetto ad una pedagogia olistica e delle relazioni significanti. Approfondiamo.

1. La vita sociale è dura, altro che liquida come dice Baumann. E il mito della “salute” è uno dei più duri perché si è mescolato con il consumismo e l’edonismo, creando un “mercato della salute” seduttivo. Una medicina mitologica crea speranze e false vite. Non è questo, ad esempio, la scoperta del Viagra? Non si può vivere serenamente la vecchiaia ricordando i bei tempi?. Anche la prevenzione, mito della sinistra, va discusso. Leggete il libro “Amara medicina” dello statistico Roberto Volpi, critico con disarmante efficacia dei falsi positivi e falsi negativi in quantità. Eppure la medicina (e connessi) avrebbe vestito “scientifico”, il càmice vale molto di più del grembiule. Si pensi ancora all’uso ideologico delle ricerche genetiche (per ogni emozione una catena di acidi nucleici ci spiega perché), la questione dei neuroni specchio (Aristotele associa meglio la percezione alla cognizione). Potremmo andare avanti ancora. Nei quotidiani e in TV il mito della medicina che guarisce, della salute asintomatica. I farmaci sono sempre più “avanzati”, manca poco all’eternità biologica. Accompagna questo mito l’idea fondativa che ogni sofferenza, ogni dolore sia “anormale”, che a star male si perde sempre. E la nostra umanità diventa sempre più artificiale, come aveva preconizzato Emanuele Severino con la sua critica alla società della teknè.

2. La vita nella crescita è dura, altro che bellezza della giovinezza! Il calo demografico produce figli nati da genitori sempre più vecchi, figli sempre più solitari, figli cui si chiede la perfezione per il sé genitoriale, non per loro. Questo figlio deve stare sempre bene, per esempio deve sempre divertirsi (non giocare, che è altra cosa). A questa mitologia si accompagna la scuola sempre più quantitativa (ah, le competenze diventate quintali di schede-fotocopie!). Questo figlio non deve mai farsi male, mai soffrire. Su questa premessa socio educativa la medicina della Grande Malattia agisce con una seduzione avvincente. Ed una certificazione leva qualsiasi senso di colpa, responsabilità. Meglio “un po’ ammalati” che cattivi. Meglio una tecnica che una pedagogia vera.

3. Sono in crisi profonda i luoghi di comunità, quelli dove “insieme se ne esce”. La solitudine e la perdita di reti comunitarie fa da pendant alla selezione darwiniana e al senso del futuro come minaccia (vedi Hobswam “Il secolo breve”). Da qui va in crisi anche la scuola come luogo che “accoglie tutti”, che “comprende tutti”, che sa travasare l’un l’altro doti e difetti. Insomma l’apprendimento come “capitale sociale” di più menti che lavorano insieme pur con diverse performances viene sostituito da prove INVALSI, voti, olimpiadi disciplinari, selezione per l’università, e così via. Stiamo quindi perdendo un perno del nostro immaginario pedagogico, quello del gruppo di pari che cresce per merito reciproco. E nella competizione, tutti gli strumenti sono buoni per non restare indietro, meglio se individuali, specializzati. Così si confezionano pedagogie quantitative senza sapore, alunni saputelli ma non saggi.

4. La figura degli insegnanti non è mai stata così in basso come in questa epoca, tra insulti perché lavativi, a ignoranti perché non moderni, né carismatici perché poveri. Lo stesso accade ai genitori, che non sentono più dentro di sé l’autorevolezza adulta, ma l’insicurezza di essere poco bravi come genitori. Da qui una disistima dell’educazione come forza trasformativa delle singole persone e delle generazioni dopo di noi. Da qui il sopravvento della tecnica sulla didattica, dei metodi sulla progettazione flessibile. A questi bistrattati insegnanti si danno sempre più alunni, alunni sempre più complicati, si accorciano le risorse. Dunque questi insegnanti sono spesso costretti, loro malgrado, a vedere nello “specialista” una risposta consolatoria, nell’insegnante in più un po’ di respiro, nell’esperto colui che ti cava le castagne dal fuoco con ricette precotte.


Naturalmente so molto bene che bambini dislessici, con caratteri difficili, con difficoltà ad apprendere, di scarsa intelligenza generale, con storie personali e sociali drammatiche, ce ne sono in quantità. So anche bene come la crisi economica aumenti certe difficoltà. Ma non riesco a vedere tutto questo dolore se non in chiave olistica e pedagogica. Non nego la presenza di “sintomi”, anzi ne riconosco tutta la serietà e la necessità di studio. Ci vorrebbe forse più deontologia nei ricercatori (spesso il ricercatore è la sua ricerca), ma la questione principale è ermeneutica: la persona è una, non è fatta di parti, se tocchi un punto tocchi tutto. La persona esiste perché ha relazioni. Dunque?

Sono stupito dal silenzio imbarazzato dei pedagogisti speciali, da cui mi attenderei un’analisi critica della confusione del presente, e della necessità di sguardi interdisciplinari che oggi non ci sono.

Penso che purtroppo (nonostante da parte di alcuni in buona fede) le attuali politiche scolastiche sul “dolore” in età evolutiva (dalla Legge 170 alla CM sui BES come alcuni fraintendimenti sulla Legge 104) non siano la soluzione ma il problema. Creano cioè nuove contraddizioni e aberrazioni educative perchè strappano sguardo e azione pedagogica in rivoletti tecnicistici. Riprendiamoci la pedagogia, insomma, con un’onesta critica al presente ed un’onesta ricerca di soluzioni individuali e di comunità diverse da quelle dei nuovi sacerdoti della teknè empirista.

Ritengo, tra l’altro, che la Legge 170 sui DSA abbia provocato più danni che risultati. Penso che l’approccio ai BES con la logica della Legge 170 sia peggio ancora. La logica del “compensativo e dispensativo” è questione didattico-pedagogica di responsabilità del docente, non tecnica misurata da psicologi cognitivi. Avevamo già la Legge 517 (del 77!) che prevedeva l’ “individualizzazione”, parola molto più bella e flessibile di queste due che sanno di burocratico e sindacale. Soffro a vedere gli insegnanti piegati a ricevere “ricette tecniche” da esterni, senza la forza e lo spazio per una propria ricerca professionale autonoma, solo questa utile a rimettere insieme l’unità tra persona e comunità, che è la vera anima dell’educazione.


Questo saggio è solo il primo (la cornice teorica) di una serie che sto scrivendo sul tema della Grande Malattia e che per economia di lettura ho diviso in 5 puntate. Nelle prossime:

2.Perché raddoppiano i disabili in dieci anni e nessuno ne parla?
3.Cambiare o meglio abrogare la 170: ripensare da capo i bisogni educativi di tutti.
4.Manovalenza e digitovalenza: visioni olistiche per una migliore inclusione.
5.Pedagogia dell’eterogeneità. Oltre la pedagogia generale e speciale."

Raffaele Iosa

da 'Scuola Oggi'

15.5.2013

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Staffetta generazionale e modelli on-off

Trovo davvero carico di premesse infondate l'orientamento prevalente del dibattito sulle pensioni

e, nella fattispecie, le proposte ed i dubbi sulla cosiddetta 'staffetta generazionale'.

In senso generale si persegue un modello 'on-off' rispetto alla vita lavorativa (o sei dentro o sei fuori, o sei in servizio o sei in pensione) che davvero è privo di connessione con la vita reale delle persone.

Sembra impensabile immaginare che ci sia chi non avrebbe problemi a percepire domani una pensione più bassa se oggi gli venisse consentito di lavorare meno.

Così viene dato per scontato che chi rinunciasse ad una parte del suo orario di lavoro e corrispondente stipendio (negli ultimi 5 anni di servizio) consentendo l'analoga assunzione di un under 35 con la stessa qualifica e con l'opportunità di creare un processo formativo docente-discente fra i due, possa avvenire solo se i contributi pensionistici rimangono invariati, con la conseguenza che lo Stato debba integrare quello che il senior non versa più.

Questa premessa rischia di vanificare la bella idea della staffetta generazionale (sappiamo quanto ce ne sia bisogno di idee del genere oggi in Italia) perchè il costo per la Stato sarebbe elevatissimo.

Ora la domanda è: ma perchè non immaginiamo che molte persone potrebbero essere disponibili a soluzioni come quella indicata anche con una proporzionale penalizzazione pensionistica?

Poerchè non ci si rende conto che molte persone potrebbero gradire una situazione di questo tipo perchè più funzionale ai loro bisogni di tempo più che di denaro, di qualità di vita più che di beni.

Non sarebbe il caso di proporre un ventaglio di proposte di 'fine lavoro' che possano favorire i giovani e che siano a costo zero per lo stato?

Oggi lavoro meno e quadagno meno con meno pensione dopo, oppure oggi guadagno meno e metto più soldi in previdenza per domani, oppure lavoro meno e guadagno meno ma vado in pensione un po' più tardi, e così via.

Nessun costo (anzi, per i dipendenti pubblici mi sembra di capire che lo stato, erogatore sia dello stipendio che della futura pensione, potrebbe avere dei vantaggi economici nel caso).

Perchè inoltre non immaginare che la forza etica diventi econonomica quando penso di dare una mano alle generazioni giovanili?

 

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Commiato

Ho apprezzato molto la scelta funebre di Franca Rame.

Mi sono spesso interrogato sui modi con i quali sarebbe stato bello, o almeno opportuno, punteggiare alcuni momenti della mia vita.

A partire dal matrimonio, e poi momenti particolari di festa, ed infine la fine della vita.

Essendo ateo cerco un significante che non rimandi a Dio o ad un dopo che, semplicemente, non comprenderà me ma che soprattutto consenta un buon commiato.

La direzione della mia riflessione va in direzione, per così dire, orizzontale per certi versi, e verticale per altri.

Mi spiego meglio:

la direzione verticale, o forse sarebbe meglio dire diacronica, riguarda ciò che lascio a chi mi è caro, e quindi soprattutto ai miei figli, a mia moglie, ma anche ai colleghi ed amici di una comunità più ampia.

Cosa lascio riguarda soprattutto cosa di buono, o di meno buono, ho fatto che possa essere loro utile.

La dimensione orizzontale riguarda questa platea di persone che possano trovare rilevante la mia morte e che abbiano voglia di salutarmi, di accomiatarsi, di condividere un ricordo.

Il tema del funerale di una persona mi pare sia la possibilità d'incontrare collettivamente la sua scomparsa.

La situazione dovrebbe quindi consentire di pensarlo/a, di dirsi cose intorno a lui, di organizzare una serie di pensieri che lo riguardino, di scambiarsi affetti rispetto a ciò che è accaduto, a ciò che è stata quella persona per ciascuno.

Certamente non tutto va condiviso e credo che sia da rispettare anche chi vive in solitudine un momento come questo, ma chi vuole stringersi per sentire insieme all'altro forse andrebbe aiutato a farlo.

Immagino quindi il mio funerale come una situazione che tocchi i luoghi della città in cui vivo e che mi è cara, a partire dalla mia casa, per approdare in luoghi nei quali si possa incontrarsi a condividere gli affetti per me ma anche fra chi resta.

Forse per qualcuno il dolore può aumentare e per qualcun'altro no, forse musiche a qualche testo che ho scritto ci potrebbero stare, non molte parole ma se qualcuno vuol dire qualcosa sarebbe benvenuto.

Naturalmente vorrei essere seppellito in un luogo sconsacrato, come si dice, con la possibilità di essere vicino ai miei cari e che qualcuno possa venire a trovarmi ogni tanto, senza venerazioni, pensando al futuro.

Credo che un funerale dovrebbe aiutare a rendere chiara la finitezza di ciascuno di noi a partire da quella del defunto.

Al contempo potrebbe aiutare a condividere il vuoto lasciato e diverso per ognuno.

 

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Transazioni

Una donna di New York – USA – ha scritto a un sito di finanza americano…
… chiedendo consigli su come trovare un marito ricco: già ciò di per sé é divertente, ma il meglio della storia é quello che un tizio le ha risposto.
LEI: Sono una ragazza bella (anzi, bellissima) di 28 anni. Sono intelligente e ho molta classe.Vorrei sposarmi con qualcuno che guadagni minimo mezzo milione di dollari all’anno. C’é in questo sito un uomo che guadagni ciò? Oppure mogli di uomini milionari che possono darmi suggerimenti in merito? Ho già avuto relazioni con uomini che guadagnavano 200 o 250 mila $,ma ciò non mi permette di vivere in Central Park West. Conosco una signora che fa yoga con me, che ha sposato un ricco banchiere e vive a Tribeca, non é bella quanto me, e nemmeno tanto intelligente. Quindi mi chiedo, cos’ha fatto x meritare ciò e Perché io non ci riesco? Come posso raggiungere il suo livello?
LUI: Ho letto la sua mail con molto interesse, ho pensato profondamente al suo caso e ho fatto una diagnosi della sua situazione. Premetto che non sto rubando il suo tempo, dato che guadagno 500 mila dollari all’anno.
Detto ciò, considero i fatti nel seguente modo: quello che Lei offre, visto dalla prospettiva di un uomo come quello che Lei cerca, é semplicemente un pessimo affare.
E ciò per i seguenti motivi:
Lasciando perdere i blablabla, quello che Lei suggerisce é una negoziazione molto semplice. Lei offre la sua bellezza fisica e io ci metto i miei soldi. Proposta molto chiara, questa. Ma c’é un piccolo problema. Di sicuro, la Sua bellezza diminuirà poco a poco e un giorno svanirà, mentre é molto probabile che il mio conto bancario aumenterà continuamente. Dunque, in termini economici, Lei é un attivo che soffre di deprezzamento mentre io sono un attivo che rende dividendi. Lei non solo soffre un deprezzamento, ma questo é progressivo, e aumenta ogni anno! Spiego meglio: oggi Lei ha 28 anni, é bella e continuerà così per i prossimi 5/10 anni, ma sempre un pò meno,e all’improvviso, quando Lei osserverà una foto di oggi, si accorgerà che é diventata una pera raggrinzita.
Questo significa, in termini di mercato, che oggi lei é ben quotata, nell’epoca ideale per essere venduta, non per essere comprata. Usando il linguaggio di Wall Street, chi la possiede oggi deve metterla in “trading position” (posizione di commercio), e non in “buy and hold” (compra e tieni stretto), che,da quanto sembra, é quello per cui Lei si offre.
Quindi, sempre in termini commerciali, il matrimonio (“buy and hold”) con Lei non é un buon affare a medio/lungo termine. In compenso, affittarla per un periodo, può essere, anche socialmente,un affare ragionevole e potremmo pensarci su. … Potremmo avere una relazione per un certo periodo…
Huuummm… Pensando meglio, e per assicurarmi quanto intelligente, di classe e bellissima lei é, io, possibile futuro “affittuario” di tale “macchina”, richiedo ciò che é di prassi: fare un test drive.
La prego di stabilire data e ora.
Cordialmente,
Suo Investitore
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Strategie PD

Condivido in parte la scelta strategica del PD di puntare al governo con i 5 stelle.

Penso vada affiancata ad una linea di condotta 'istituzionale' che chiami in causa, a cominciare da Camera e Senato per proseguire con le commissioni parlamentari e poi con il presidente della repubblica, tutti i partiti, compreso il PDL.

Un conto infatti è la linea politica ed un conto è quella istituzionale.

Credo si debba puntare ad un presidente della Camera dei 5 stelle o, più probabilmente, del PDL e ad un presidente del Senato che costituisca una figura di area PD ma dotato di grande autorevolezza morale ed indipendenza (Rodotà?).

Anche per il presidente della repubblica, che si vota dal 15 aprile, mi muoverei nella linea della concertazione con tutti i partiti.

Su questo piano non c'è ragione alcuna di ostracismo verso il PDL che ha piena legittimità democatica non intaccata dalle vicende giudiziarie del suo leader.

Credo si tratti di arrivare, nel caso la proposta Bersani a Grillo, come è probabile, non vada in porto, ad una proposta di un governo affidato dal nuovo presidente della repubblica ad una carica istituzionale, il presidente del Senato, seconda carica dello stato, con il mandato di fare una riforma elettorale che garantisca la governabilità all'uscita dalle urne e che introduca un forte cambiamento in alcuni assetti istituzionali (numero e retribuzione parlamentari) in tempi tali da andare a votare in autunno gestendo nel frattempo autorevolmente l'emergenza economica..

Credo che una proposta del genere troverebbe i voti di fiducia di PD, Monti e PDL e la collaborazione su singoli aspetti del movimento 5 stelle.

Poi ad ottobre vinca il migliore.

PS: Non so se il PD riuscirebbe a cambiare il segretario in tempo ma non credo sarebbe essenziale.

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